Non è un mistero che l’attuale sistema produttivo sia la causa principale del cambiamento climatico che si sta verificando sul nostro pianeta. Per non parlare delle infinite ingiustizie sociali ed economiche che ne derivano.
Le idee di impresa, di profitto, sono ormai associate ad un concetto di estrazione, consumo, estinzione. Nella stragrande maggioranza dei casi è la verità, io stesso mi ritengo uno dei molti dubbiosi del nostro sistema.
C’è però, per fortuna, chi prova a cambiare il modo di fare le cose, chi prova a ridisegnare le reti del sistema che ci vede tutti nel ruolo di consumatori finali. Perché al momento questo siamo: se le aziende producono, noi di conseguenza consumiamo. Un titolo che francamente non mi rende molto entusiasta. Penso di poter dare un altro significato al mio ruolo nel mondo, e come me tanti altri.
Esiste un modo per fare impresa e avere davvero un impatto positivo? Spoiler alert, la risposta è si. Ma qui giochiamo un ruolo chiave anche noi “consumatori”.
Il primo indizio ce lo dà l’America (sono sorpreso quanto voi). Secondo uno studio del Bureau of Economics condiviso da Will Media, negli ultimi 20 anni il PIL del Paese è aumentato progressivamente riducendo al tempo stesso le emissioni totali di gas serra. Crescita e consumo sembrano non andare per forza di pari passo, e non per forza il risultato è un impatto negativo.
Per capire meglio questo dato è necessario forse fare un piccolo passo indietro, per capire cosa intendiamo per impatto. Esistono infatti 3 tipi diversi di impatto: economico, ambientale e sociale. L’aspetto economico ha a che fare con il livello di occupazione e innovazione che vengono portate da un’azienda. L’impatto ambientale riguarda la quantità di risorse che vengono consumate – ogni anno l’Overshoot Day, il giorno in cui vengono terminate le risorse generate dal pianeta per quell’anno, arriva sempre prima, nel 2023 era stato ad agosto e nel 2024 potrebbe essere già a giugno. Nonostante il concetto di sviluppo sostenibile sia stato introdotto nel 1987 dalla World Commission on Environment and Development (WCED), sembra ancora lontano dalla sua effettiva applicazione.
L’ultimo aspetto, quello sociale, quello forse più ignorato, vede il ruolo dell’impresa come attore della comunità in cui opera, perciò responsabile per il suo benessere.
Alla luce di questa triplice relazione, le attività di un’impresa devono saper rispondere a questi fattori, per trasformare quello che è un apparente impatto negativo in ricchezza per il territorio. Un passo molto interessante di Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia e surfista all’azione nell’iconica copertina qui sopra, nel suo “Let My People Go Surfing” (per chi se lo fosse perso, titolo di punta dell’estate Upskill 2023, promosso da Elena Masi) analizza proprio questo ruolo di responsabilità delle imprese: se da un lato l’imprenditoria consuma, inquina, minaccia la biodiversità, dall’altro crea occupazione, porta innovazione in un territorio, favorisce un equilibrio demografico. Perciò sì, le imprese possono ancora fare la differenza, basta passare ai fatti, quelli veri. Qui entriamo in gioco anche noi consumatori, perché se tutto ciò che produciamo danneggia l’ambiente, a maggior ragione spetta a noi comprare meno e meglio.
In questo senso, conta come un brand o un’impresa agisce nel mondo reale, il modo in cui si fa portatore del cambiamento, come afferma Paolo Iabichino nel suo “Scrivere Civile”. Esistono già oggi molti modi per rendicontare gli aspetti non finanziari di un’impresa, basti pensare alle varie sigle come CSR (Corporate Social Responsibility), ESG (Environmental, Social, Governance), B Corp. Questi sono però tutti riconoscimenti a posteriori, dopo aver effettivamente messo in pratica le giuste azioni. Da dove iniziare quindi? Il primo obiettivo deve essere sicuramente quello di ridurre l’impatto ambientale e il modo più immediato di intervenire è rivedendo l’aspetto energetico. Le fonti di energia rinnovabili riducono l’utilizzo di risorse, portando anche a benefici economici diretti per l’impresa. Anche le materie prime possono essere scelte diversamente, preferendo magari materie prime seconde e cercando di rimettere in circolo gli scarti prodotti. Semplici mosse, nulla di trascendentale, ma che possono portare dei benefici anche reputazionali, attraverso il marketing.
Qui si apre una parentesi sull’impatto sociale, quando le persone riconoscono particolari valori nelle aziende e quando la pubblicità diventa un fattore chiave per raccontare le proprie (buone) azioni.
“Every company is a media company” preannunciava visionariamente Tom Foremski qualche anno fa, lasciando intendere quanto sapersi raccontare stesse diventando una pratica fondamentale per le aziende.
In una società in cui i CEO sono sempre più visti come figure politiche, prendere posizione, schierarsi, diventano prerogative per fidelizzare i clienti. Ecco quindi che per le imprese che vogliono impegnarsi anche socialmente si apre la strada del Brand Activism, termine coniato da Philip Kotler nel suo libro “Brand Activism. From purpose to action”. Come per ogni nuova pratica il rischio è però dietro l’angolo, soprattutto legato alla polarizzazione (orientarsi verso un gruppo esclusivo di interesse) e alla possibilità di finire in uno dei tanti fenomeni nella categoria -washing (greenwashing, pinkwashing, rainbow washing e molti altri).
Esiste quindi un modo per fare impresa e avere davvero un impatto positivo?
La risposta è sì. Esiste un mix di tanti elementi diversi, derivanti dalla cultura aziendale, che possono portare a questo risultato. Solo dopo aver capito il proprio ruolo nella società si può passare all’azione. La “pubblicità civile” (citando Iapichino) è solo il mezzo con cui arrivare alle persone, ma sono i gesti, le azioni, che possono portare ad un’economia diversa, più equa, più inclusiva…più civile.